Riflettevo. E’ ormail il terzo progetto che seguo passo dopo passo con questo blog. Il filo rosso delle foto, a parte qualche rara eccezione, sono state, e continueranno ad essere, le tazze-lavagna. E’ strano che nessuno mi abbia mai chiesto il perchè. Cioè… per me è strano. Perchè a me un po’ di curiosità sarebbe venuta. Sì, certo, pratiche perchè ci si può scrivere e (provare a) disegnarci sopra. Ma potevano andar bene anche dei post it o delle lavagnette normali o un angolo di cemento da vivere in stile “madonnaro”. Invece… Invece ho optato per le tazze-lavagna perchè riuniscono le mie due più grandi passioni: l’universo scrittura, con tutto quello che ne deriva, e l’immancabile caffè.
Ho una dipendenza da caffeina, lo ammetto. In ogni sua forma (tranne il caffè del bar, ormai ha del miracoloso trovarne uno decente, avete notato?) In ogni sua lunghezza (a parte ristretto… potrei morire… il caffè è sacro e deve essere “tanto”!) In ogni aromatizzazione (preparare la moka e non metterci una spolverata di cannella per me è semplicemente impensabile). In ogni declinazione (no, deca no! uno beve il caffè per la caffeina, tanto vale si faccia una spremuta se no!)
Insomma, parliamo di due tratti distintivi. Non particolarmente originali. Per nulla desueti. Però se dovessi descrivermi in un racconto, usando la terza persona, partirei con una frase molto simile a: “Continuava a scrivere, sorretta dal caffè che le scorreva nelle vene.” La scrittura è un universo generato da innumerevoli componenti: l’osservazione della realtà, la sua rilettura critica, le opinioni personali, le esperienze di vita, i ricordi e le speranze, l’interiorità celata, la fantasia, l’utopia, le perversioni, etc etc. Il caffè racconta infinite altre cose. Quello americano e quello solubile che portano con sè ricordi di mondi lontani ma vissuti con tutta l’anima. La macchinetta che parla di momenti rituali condivisi. La moka indissolubilmente legata alla famiglia di origine. Parla di notti in bianco, di energia liquida da iniettarsi al bisogno. Di sveglie all’alba e soste in autogrill. Parla di controllo, suscettibilità, nervosismo, eccitazione. E parla di momenti di relax, di coccole, di chiacchiere, di amicizie, di incontri, di scuse, di dichiarazioni d’amore.
Due tazze-lavagna. Ben poca cosa… non fosse che contengono un universo illimitato al loro interno, per chi voglia farne esperienza, per chi voglia assaporarlo goccia a goccia.
Tutto questo per spiegare che sono le piccole cose, i dettagli, gli aspetti banali che tendono a passare inosservati che rendono vivo, reale, umano un personaggio. Molto più che i dialoghi volutamente profondi, intelligenti ed altisonanti (in una parola: falsi! ma chi diamine avete mai sentito nella vita parlare così? al massimo son frasi che vanno bene da scrivere nel proprio diario!) Molto più che interminabili descrizioni su aspetto, carattere, modo di fare, inclinazioni… Piccoli gesti, piccoli sguardi, piccole banalità non solo raccontano, ma quasi urlano dell’interiorità di un personaggio, dei rapporti con chi lo attornia, di come percepisce il mondo attorno.
Faccio un esempio pratico, giusto perchè l’altro giorno ho rivisto (per motivi noti) I ponti di Madison Country. All’inizio del film Francesca è in cucina che prepara la colazione mentre ascolta la radio. La figlia sopraggiunge e, senza neanche chiedere, cambia stazione (già qua da ammirare la calma con cui la protagonista si fa andar bene la cosa: provate a fare un torto del genere a me e me ne ricorderò a vita…) In seguito, la sposatissima Francesca è in auto con Robert, fotografo di passaggio. Cercano assieme una stazione radio e scoprono di amare lo stesso genere di musica. C’è l’intera vita della donna in questi due brevissimi passaggi. C’è lei che vive con una famiglia in cui non si riconosce, con due figli in cui non si rispecchia. E’ l’estranea -la straniera, letteralmente-, l’outsider. Ma poi arriva Robert e lei sembra ritrovare la sua identità, la sua libertà di espressione, la sua voce. E questo rende ancora più immenso il sacrificio che fa quando sceglie di restare con la famiglia per il bene del marito e dei figli invece che scegliere se stessa e la sua felicità, l’espresisone del suo io, la libertà, l’amore che t’inonda.
Ecco. Questo è il bello dei dettagli: racchiudono tutta la storia, la verità. Sintetizzano il senso della storia. Riassumono in un piccolissimo gesto l’universo interiore, e la sua evoluzione, di un personaggio.
Per questo sento la mancanza di “qualcosa di stabile” quando vengono a mancare. A mio avviso, qualcosa di “fisso” dev’esserci. Che sia un ciondolo, un portachiavi, una ciocca di capelli di un colore diverso, un biglietto nascosto nel portafoglio e riletto in momenti particolari… Là sta tutta l’essenza di un personaggio. Là c’è lui. Là si cela la storia che merita di essere raccontata…