In evidenza
Pubblicato in: avventure di una scrittrice

Qui inizia il viaggio

Avere un problema equivale ad avere una soluzione.

Il mio problema? Ho bisogno di una dead line imminente. Ho bisogno di avere l’acqua alla gola. Ho bisogno di sentire i battiti del cuore diventare sempre più rapidi.

E’ il solo modo che conosco per mettermi su qualcosa al milleXmille… Con me non funziona il “prendersi per tempo”. Con me non funziona la programmazione… Per avere tutta la mia attenzione bisogna essere al conto alla rovescia, al vinci o soccombi. Per me è sempre andata così: consegna/scadenza/esame dopo un tot giorni equivaleva a kazzeggio, procrastinazione, kazzeggio, primi tentativi di trovare la concentrazione, kazzeggio. Il tutto fino a una manciata di giorni prima. E a quel punto, quando la data fatidica più che all’orizzonte era ad un passo, mi ci mettevo con tutta me stessa, 24 ore al giorno, concentrazione totale. Il resto del mondo spariva attorno a me e tutto quello che importava, più dell’ossigeno, più del riposo, più di tutto, era arrivare alla grande al traguardo.

Quindi eccomi qui… a darmi una scadenza (fin troppo lontana per me, in effetti) ma con l’impegno di seguire anche questo blog. Perchè se ogni giorno devo postare qualcosa allora non posso procrastinare. Non posso mentire. Posso prendermela pure un po’ comoda all’inizio per entrare nel giusto mood, per studiare dei testi che mi aiuteranno nella stesura ma… poi s’inizia, s’inizia davvero, s’inizia alla grande… Una sfida, con me stessa in primis. Un viaggio navigando a vele spiegate: a volte il vento soffierà e mi farà percorrere un bel tratto, altre volte la bonaccia mi farà godere il sole sulla faccia, altre volte ancora la tempesta (la mia parte ipercritica) mi farà imbarcare acqua e desiderare di saltare sulla scialuppa di salvataggio, qualsiasi nuovo progetto essa sia…

Che posso dire… semplicemente… nulla per me è più eccitante di una sfida, soprattutto se sono io ad aver messo l’asticella… e soprattutto se l’ho ficcata oltre i miei limiti…

Pubblicato in: avventure di una scrittrice

Giorno 12

IMG_6553(1)

Apro subito una parentesi, così, tanto per iniziare bene… Ammetto che l’ho notato solo oggi, mentre scrivevo sulle tazze. Non tanto in italiano, ma in inglese l’aggettivo “imperfect” contiene in sè già il suo opposto: “I’m perfect”. Io sono perfetto. Come lo è ognuno di noi nella sua unicità. Beh, niente, ok, volevo solo sottolineare questa cosa: a volte basta un apostrofo e un piccolo spazio per mutare completamente la situazione. Lo trovo quanto meno affascinante…

Ma torniamo a noi… e al romanzo che diventerà film…

La protagonista sta preparando la valigia perchè trascorrerà fuori il weekend. Niente minifuga romantica, niente finesettimana “acchiappo” con le amiche. No. Va via per lavoro… Ora, ovviamente, chi si è rivolto a lei è un gran figo super-affascinante, super-ricco, super-romantico, super-tutto. Ci sta, che razza di principe azzurro sarebbe altrimenti? (ah… è munito anche di titolo nobiliare, così, per non farci sfuggire nulla…) Però… però l’incontro è per lavoro. E, premesso, non stiamo parlando di Pretty Woman, non è una escort che quindi deve far fare una porca figura al suo accompagnatore. Lei è più… psicoterapeuta, ecco, se proprio vogliamo darle una carriera (spiacente, troppo presto per parlare del suo lavoro nel dettaglio!) Non so voi ma io agli incontri, alle riunioni, ai pranzi di lavoro ci vado vestita molto “normale”. Non dico in tuta, felpa, muta da palombaro… ma insomma, un paio di jeans e una camicia mi sembrano già perfetti. Lei, per un weekend, infila in valigia 5 abiti -dico, CINQUE ABITI!- e altrettante paia di scarpe perchè non vorrai mica non essere perfettamente coordinata, no? Poi due paia di jeans, delle camicie di seta, una camicia da notte di seta, pareo, costume… (che immagino non sia un olimpionico come quello che infilo io se quando sono via per lavoro m’imbatto in un albergo con la piscina!)

Ora… io avrò pure un rapporto con la moda problematico, non sarò un’amante dei super abiti che sembrano urlare “guardatemi!!!” (ovviamente le scarpe sono tacco 12… non ci sa camminare tanto bene ma hey, buttali via 12 cm di altezza in più se indossi un abito da sera…) ma vorrei capire: che se ne fa di 5 abiti per un weekend di lavoro? E lo chiedo io che sono una che la valigia la riempie fino a quando non ci entra più neanche uno spillo (e tendenzialmente mi ci devo sedere sopra per chiuderla…) Ma io dico: due paia di pantaloni, tre maglie (chissà perchè da piccola mi hanno inculcato che “magari ti sporchi, ti serve un cambio” e io ancora faccio sti calcoli), un maglioncino per la sera (siamo in piena estate), metti pure un vestito perchè può capitare che il principe azzurro proponga una cena in un ristorante super top super alla moda super tutto… ma ci stai dentro. Anche perchè, onestamente… lui è di un romantico smielato, cita film che per me sono tendenzialmente “da donna” (non nel senso che gli uomini non possano apprezzarli… però me li vedo più del tipo “vado a cinema a vedere sto film così la mia compagna smette di rompere… e comunque settimana prossima esce la ventisettemillesima puntata della saga degli Avengers”) Insomma, in certi frammenti lo trovo decisamente eccessivo, stucchevole perfino, ma da qui al fatto che noti che s’è portata dietro 5 paia di scarpe diverse la vedo dura. Che per assurdo non viene mai mai mai descritto come veste lui, come a sottolineare il fatto che il look non rientri propriamente nella lista delle sue priorità. Invece di lei conosciamo la marca di ogni singolo capo nonchè degli accessori.

A me sta cosa urla di insicurezza lontano miglia, francamente. Questo bisogno spasmodico di essere perfetta, di farsi notare, di apparire “giusta” a tutti i costi… e nota bene… quando ha fatto un weekend con le amiche era l’unica in jeans mentre le altre tre erano vestite che neanche le presentatrici di Sanremo sbirluccicano tanto. Ci starebbe tantissimo se si fosse presa una cotta per lui (lo troverei eccessivo comunque ma chi sono io per giudicare le tecniche di acchiappo altrui?)… ma in teoria lei è invaghita di un altro.

No, niente, per me alcune cose restano dei misteri.

Come il fatto che in alcuni momenti (totalmente aleatori) ricorda l’impacciatissima Bella di Twilight, che riesce a trovare l’unico sasso su cui inciampare in una piazza di marmo tirato completamente a lucido e in altri ha la falcata felina e l’agilità di una gazzella… Capirei se caracollasse dalle scarpe perchè si sente gli occhi di lui addosso e questo la fa imbarazzare al punto di metterla quasi al tappeto… ma no… a volte è così, altre è pomì.

E niente, non lo so… mi fa un’enorme tenerezza la sua insicurezza, quest’ansia di perfezione per mascherare quanto si senta in difetto rispetto a chi la circonda. Però, posso dirlo? E’ simpatica, sveglia, intelligente… ci farei quattro chiacchiere volentieri, ma fare amicizia con una persona del genere a me risulterebbe davvero difficile, almeno finchè continuasse ad indossare tutte queste maschere. Secondo me, se fosse semplicemente, genuinamente se stessa, se non rinnegasse le sue origini da Cenerentola, sarebbe semplicemente perfetta.

Pubblicato in: Senza categoria

Giorno 11

-IMG_6548(1)Riflettevo. E’ ormail il terzo progetto che seguo passo dopo passo con questo blog. Il filo rosso delle foto, a parte qualche rara eccezione, sono state, e continueranno ad essere, le tazze-lavagna. E’ strano che nessuno mi abbia mai chiesto il perchè. Cioè… per me è strano. Perchè a me un po’ di curiosità sarebbe venuta. Sì, certo, pratiche perchè ci si può scrivere e (provare a) disegnarci sopra. Ma potevano andar bene anche dei post it o delle lavagnette normali o un angolo di cemento da vivere in stile “madonnaro”. Invece… Invece ho optato per le tazze-lavagna perchè riuniscono le mie due più grandi passioni: l’universo scrittura, con tutto quello che ne deriva, e l’immancabile caffè.

Ho una dipendenza da caffeina, lo ammetto. In ogni sua forma (tranne il caffè del bar, ormai ha del miracoloso trovarne uno decente, avete notato?) In ogni sua lunghezza (a parte ristretto… potrei morire… il caffè è sacro e deve essere “tanto”!) In ogni aromatizzazione (preparare la moka e non metterci una spolverata di cannella per me è semplicemente impensabile). In ogni declinazione (no, deca no! uno beve il caffè per la caffeina, tanto vale si faccia una spremuta se no!)

Insomma, parliamo di due tratti distintivi. Non particolarmente originali. Per nulla desueti. Però se dovessi descrivermi in un racconto, usando la terza persona,  partirei con una frase molto simile a: “Continuava a scrivere, sorretta dal caffè che le scorreva nelle vene.” La scrittura è un universo generato da innumerevoli componenti: l’osservazione della realtà, la sua rilettura critica, le opinioni personali, le esperienze di vita, i ricordi e le speranze, l’interiorità celata, la fantasia, l’utopia, le perversioni, etc etc. Il caffè racconta infinite altre cose. Quello americano e quello solubile che portano con sè ricordi di mondi lontani ma vissuti con tutta l’anima. La macchinetta che parla di momenti rituali condivisi. La moka indissolubilmente legata alla famiglia di origine. Parla di notti in bianco, di energia liquida da iniettarsi al bisogno. Di sveglie all’alba e soste in autogrill. Parla di controllo, suscettibilità, nervosismo, eccitazione. E parla di momenti di relax, di coccole, di chiacchiere, di amicizie, di incontri, di scuse, di dichiarazioni d’amore.

Due tazze-lavagna. Ben poca cosa… non fosse che contengono un universo illimitato al loro interno, per chi voglia farne esperienza, per chi voglia assaporarlo goccia a goccia.

Tutto questo per spiegare che sono le piccole cose, i dettagli, gli aspetti banali che tendono a passare inosservati che rendono vivo, reale, umano un personaggio. Molto più che i dialoghi volutamente profondi, intelligenti ed altisonanti (in una parola: falsi! ma chi diamine avete mai sentito nella vita parlare così? al massimo son frasi che vanno bene da scrivere nel proprio diario!) Molto più che interminabili descrizioni su aspetto, carattere, modo di fare, inclinazioni… Piccoli gesti, piccoli sguardi, piccole banalità non solo raccontano, ma quasi urlano dell’interiorità di un personaggio, dei rapporti con chi lo attornia, di come percepisce il mondo attorno.

Faccio un esempio pratico, giusto perchè l’altro giorno ho rivisto (per motivi noti) I ponti di Madison Country. All’inizio del film Francesca è in cucina che prepara la colazione mentre ascolta la radio. La figlia sopraggiunge e, senza neanche chiedere, cambia stazione (già qua da ammirare la calma con cui la protagonista si fa andar bene la cosa: provate a fare un torto del genere a me e me ne ricorderò a vita…) In seguito, la sposatissima Francesca è in auto con Robert, fotografo di passaggio. Cercano assieme una stazione radio e scoprono di amare lo stesso genere di musica. C’è l’intera vita della donna in questi due brevissimi passaggi. C’è lei che vive con una famiglia in cui non si riconosce, con due figli in cui non si rispecchia. E’ l’estranea -la straniera, letteralmente-, l’outsider. Ma poi arriva Robert e lei sembra ritrovare la sua identità, la sua libertà di espressione, la sua voce. E questo rende ancora più immenso il sacrificio che fa quando sceglie di restare con la famiglia per il bene del marito e dei figli invece che scegliere se stessa e la sua felicità, l’espresisone del suo io, la libertà, l’amore che t’inonda.

Ecco. Questo è il bello dei dettagli: racchiudono tutta la storia, la verità. Sintetizzano il senso della storia. Riassumono in un piccolissimo gesto l’universo interiore, e la sua evoluzione, di un personaggio.

Per questo sento la mancanza di “qualcosa di stabile” quando vengono a mancare. A mio avviso, qualcosa di “fisso” dev’esserci. Che sia un ciondolo, un portachiavi, una ciocca di capelli di un colore diverso, un biglietto nascosto nel portafoglio e riletto in momenti particolari… Là sta tutta l’essenza di un personaggio. Là c’è lui. Là si cela la storia che merita di essere raccontata…

Pubblicato in: avventure di una scrittrice

Giorno 10

IMG_6538Diamine se siamo schiavizzati dal tempo, siamo sempre impegnati a controllarlo… E poi gli diamo del tiranno, del capriccioso che scorre alla velocità che decide lui: a ritmo di tartaruga quando dovrebbe schizzare via e a falcate da ghepardo quando dovrebbe congelarsi. E’ poliedrico e duale, il tempo: corre via, vola, sparisce, finisce, non passa mai, imita l’eternità, sa rendersi infinito.

Quando scrivi giochi proprio con questo: fai durare all’infinito degli attimi e poi guidi il lettore (o lo spettatore) a velocità da Formula1 attraverso una decade. Uno schiocco di dita ti porta dagli anni ’50 ad oggi. Un battito di ciglia dura quanto l’intera saga di Beautiful. Mi attizza questo? Certo, semplicemente mi esalta! La possibilità di manipolare il tempo, di sottometterlo alla nostra volontà ha un che di divino, di onnipotente. (E del resto l’ho sempre detto, chi scrive gioca a fare Dio: dai la vita, la togli, ne decidi un segmento… puoi arrivare a negare completamente il libero arbitrio ai tuoi personaggi: decidi tu per loro, questa è la legge… -ok, ammetto che non sono favorevole a quest’ultima opzione, per essere vivi, per come funziono io, devono poter scegliere. Ma questa è un’altra storia…-)

Certo, anche le ellissi temporali bisogna saperle fare. Così come flashback e flashforward bisogna saperli gestire. Perchè non c’è nulla di peggio di un lettore (o di uno spettatore) che si perde non capendoci più nulla. Ho terminato da poco la lettura di un libro che aveva proprio questo handicap e vi assicuro che la sensazione è terribile: ogni tre pagine mi chiedevo a che punto si fosse nella storia. Finisci per non assaporarla più perchè sei troppo preso a fare calcoli mentali… sperando siano corretti!

Ma si dice anche che il tempo è galantuomo. Questo perchè, in linea di massima, ristabilisce la verità, ripara i torti, cura ogni cosa, dà ragione ai giusti. O almeno si spera. Nella mia esperienza ho imparato che a volte è meglio, semplicemente, mettersi a far qualcosa e aspettare che scorra com’è sua natura. Non importa se pare che la lancetta dei secondi sia andata in letargo o che, al contrario, sia stata caricata da un fulmine. Con me ha sempre funzionato in un unico modo: se avevo abbastanza pazienza, le risposte arrivavano, ogni avvenimento acquisiva un senso, i pezzi del puzzle s’incastravano alla perfezione mostrando un’immagine via via più nitida e completa e, soprattutto, tutte le bugie raccontate, quelle da naso lungo e gambe corte, si sbugiardavano autonomamente.

Ci avete mai fatto caso? I “racconta-palle” seriali, se dai loro corda, ci si impiccano da soli, prima o poi. Certo, tu sulle prime sei portato a credere a quello che dicono e a concedere la tua fiducia (il principio dell’innocente fino a prova contraria, per intenderci…) Poi percepisci che qualcosa inizia a zoppicare, prima impercettibilmente poi via via sempre più palesemente, come fosse una maschera di Keyser Söze particolarmente ben riuscita (ok, do un aiutino ai meno cinefili: I soliti sospetti…) A quel punto riavvolgi il nastro e lo rivedi, sottolineando tutti i passaggi che in un primo momento ti sembravano strani, tutte le incongruenze, tutte le volte che il tuo interlocutore si è contraddetto (ci vuole una memoria incredibile per ricordarsi tutte le cazzate raccontate…) Poi inizi a sommarci i dati discordanti che ti sono pervenuti: amici che ti raccontano una versione diversa dello stesso episodio, conoscenti che inconsapevolmente si lasciano sfuggire un dettaglio che ti spalanca una porta, colleghi che cadono dalle nuvole… La cosa divertente è la trappola che fai scattare tu. Quel lento, letale, insopportabile pungolamento che porti avanti perchè è più divertente una vendetta servita fredda. In tutto questo il “racconta-palle”, che è troppo concentrato a tenere in piedi il suo mondo immaginario, se ne sta tronfio sul trono che si è costruito, attorniato da tutte le lodi nei suoi confronti che si è inventato, cullato da un ego smisurato disegnato da lui stesso -perchè in realtà il suo vero io si sente più piccolo di una pulce e più inutile di un vaso per fiori in pieno Sahara (e lontano da oasi!)- e non si accorge assolutamente di nulla. Com’è la storia che gli altri sono specchi di noi stessi? Ecco… il “racconta-palle” seriale crede che tutti siano dei perfetti cretini che non si accorgono di nulla… perchè in genere è un cretino che non si accorge di quanto profonda sia la fossa che si sta scavando da solo. (Ovviamente poi c’è Keyser Söze, ma lui fa categoria a sè!)

C’è da chiedersi se esista qualche eccezione…

No. Proprio per la galanteria del tempo acquista veridicità l’espressione “stare a galla come uno stronzo”. In poche parole… così come Dante che torna a rivedere le stelle, anche la verità è destinata ad essere inondata dalla luce, non importa da quanti strati di “versioni diversamente veritiere” sia ricoperta.